Alberi

Al Romito, dove vivo, ci sono dei magnifici alberi tra cui querce forti e perseveranti con chiome alte e indipendenti che assolvono tutti i loro doveri: sono rifugi per gli uccelli, ombra estiva e offrono dorati frutti per caprioli e cinghiali. Fanno più scura la notte e diffondono una quiete imperturbabile. Sono il mio albero preferito.
Una in particolare domina il campo e tutte le cose intorno, compresa la casa a più livelli con i suoi contrafforti in pietra; è Axismundi: veicola la connessione con l’universo e invita ad entrare nello stato contemplativo.

A Oachira (distretto di Kollam, Kerala, India del sud), sono rimasta colpita da un albero circondato da terra levigata come velluto steso e di un bel colore rosso dorato. Il verde smeraldo del fogliame, a forma di coppa rovesciata, fa scudo alla luce calda e abbagliante.
A una decina di metri dal suo centro si trova un recinto di povera rete in ferro, al di là della quale preme un ammasso stratificato di foglie secche e altri residui naturali.

L’ammasso è alto circa un metro e mezzo e vi si intravedono una miriade di globi colorati che con sguardo più attento cerco di decifrare: piccole sculture in gesso, plastica e terra cotta oppure carte sbiadite con immagini di santini, Lakshmī e Shiva.

Sotto agli stoini di rafia sfilacciati spunta un Ganesha, pochi centimetri più avanti Vishnu. La loro funzione è stata un tempo quella di veicoli provvisori per far volare le preghiere e poi gettati dopo l’uso, al di là dall’area sacra; finiranno distrutti dallo stomaco del fogliame.

La rete contiene e nel contempo è spinta da questa massa di detriti naturali e artificiali che andranno a perdersi nella foresta adiacente.

All’entrata del recinto spunta l’artefice dell’ordine mantenuto al suo interno: una scopettina fatta di fronde.
Lo strumento musicale ad una corda, appartenente al custode del luogo, è a terra con l’archetto riverso e attende la prossima cerimonia: ha il braccio di legno corto e tozzo, la cima tornita a impronta di mano, la cassa panciuta e la sezione ovale rivestita di pelle di serpente con rattoppi di plastica.

A differenza di altri ‘alberi tempio’ del luogo, questo non ha né immagini appese né altri oggetti rituali. Qui tutto è semplicemente essenziale: il tronco scuro come mogano compatto, ceroso, la terra battuta e spazzata perfettamente.
L’ombra intensa dell’albero crea quel raccoglimento che si prova in piena estate uscendo dal sole accecante ed entrando all’interno di una pieve romanica di campagna. La calma è totale, basta un albero e un prezioso tappeto di terra.
Nell’ombroso THòLOS il cuore si fa nido.

L’arcobaleno di simulacri al di là del recinto “parla”, è vivo; è compreso nell’azione dell’uomo e torna alla cenere. Torna ad essere, senza equivoci, semplicemente gesso, plastica, carta colorata.

Noi, ossessionati dalla paura della fine di tutte le cose, costruiamo eterni feticci e ne riempiamo i musei, affannandoci affinché tutto quanto si conservi. Perdiamo di vista il senso profondo della vita e diventiamo noi stessi feticci.
Il nostro arcobaleno di simulacri non parla più e nel nostro vivere quotidiano ci troviamo orfani della tensione meravigliosa verso il divino.

Sandra Stocchi